Metti la nonna in freezer: A chi fa male una nonna surgelata, una pensione in più e una bancarotta in meno? | Rolling Stone Italia
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A chi fa male una nonna surgelata, una pensione in più e una bancarotta in meno?

'Congelare i nonni morti per continuare a percepire la pensione' è una pagina Facebook ed è qualcosa che è accaduto davvero.

A chi fa male una nonna surgelata, una pensione in più e una bancarotta in meno?

In questo film c’è Barbara Bouchet che fa la nonna. Morta, per giunta. «Fatemi vecchia, fatemi brutta, ma levatemi di dosso la cosa del sesso e della sex symbol, perché non ce la faccio più», andava dicendo lei prima che le arrivasse un copione dove le veniva richiesto di recitare da viva per una manciata di minuti e tutto il resto da morta, persino surgelata. Ha accettato con entusiasmo.

La storia sembra scritta già tutta nel titolo, invece a metà della prima parte si capisce che è vero soltanto in parte (una piccolissima parte). Claudia (Miriam Leone) gestisce una mini-impresa di restauro con due dipendenti, sue care amiche (Lucia Ocone e Marina Rocco): la pubblica amministrazione le deve molti soldi e, naturalmente, temporeggia, così lei chiede alla nonna (Barbara Bouchet) di prestarle, ogni mese, la pensione, per non finire in bancarotta.

Una mattina, però, la nonna esagera con lo strudel e muore: le tre ragazze, passati dolore e cordoglio (nello spazio di un’altra manciata di minuti), realizzano immediatamente che perderanno la loro unica fonte di sostentamento, dunque decidono di nascondere il cadavere in frigo per qualche mese, il tempo di sistemare tutto e riscuotere i crediti. I guai (ulteriori) cominciano quando Simone Recchia (Fabio De Luigi), ligio finanziere, s’innamora di Claudia, che prima finge di ricambiare per depistarlo e poi, invece, corrisponde sentitamente, sebbene lui sia goffo, insicuro, iperprotettivo, inesperto (due sole donne in tutta la vita), rigido, molto solo.

Congelare i nonni morti per continuare a percepire la pensione è una pagina Facebook con 1389 mi piace, corrisponde alla breve sinossi di questo film e, soprattutto, è qualcosa che è accaduto davvero e, probabilmente, continua e continuerà ad accadere. Due anni fa, a Ronciglione (Viterbo), il corpo di una ottantenne viene rinvenuto nel congelatore della casa in cui viveva insieme suo fratello. Nel 2014, a Reggio Calabria, nel frigorifero della casa in cui viveva con la figlia che riscuoteva ogni mese la sua pensione, viene ritrovata una novantenne morta da almeno un anno. È successo a Messina, ad Aosta, vicino Cuneo e in un sacco di altri posti: «l’idea mi è venuta leggendo il giornale», ha detto Nicola Giuliano che ha prodotto il film e ne ha firmato il soggetto.

«Non penso ai significati, quando scrivo, ma, riguardandolo, ho capito che questo è un film che racconta almeno una cosa: l’onestà è una virtù sociale e la disonestà è contagiosa», ha detto lo sceneggiatore, Fabio Bonifacci. Pensiamoci: gli onesti servono il bene comune e i disonesti non agiscono quasi mai isolati, ma sempre in bande – adorabili bande che suscitano una simpatia e un’empatia che il cinema ha raccontato, con successo, moltissime volte (qualcuna: La Stangata; Pacco, Paccotto e Contropaccotto; Point Break; I tartassati; Luna di carta). L’onestà e la disonestà esistono ed hanno un’incidenza se si propagano in un ambiente non ostile. Entrambe producono una convenienza e questo le rende virtù di calcolo e raziocinio, ben distinte (ma non escluse) dal bene e dal male, tanto che in questo film i disonesti sono tutti brave persone e nessuno (nessuno!) è cattivo.

La nonna sarebbe stata d’accordo, in fondo è per una buona causa e poi sai come starà bene qui, nel freezer che le è sempre stato tanto caro, si dicono Claudia e le sue amiche mentre spostano buste di tortellini fatti in casa per fare spazio al cadavere con il volto calmo, pacificato, quasi benedicente e complice. Tra la legge e l’amore, quello vero, è davvero possibile o giusto scegliere la legge? Non è una domanda inedita, tutti conosciamo Antigone. Il punto è, però, che di Antigone non ne nascono più e questa, se volete, è una tragedia peggiore. Claudia decide quasi immediatamente di seguire il cuore, che le dice di salvare il lavoro suo e delle sue amiche, congelando la nonna e tenendosi la pensione. Il commissario Recchia fa altrettanto: si lascia travolgere nella catena di reati di Claudia e, per amor suo, accantona la legge. E a noi, che guardiamo il trionfo dell’amore, il male che fa il bene, la legalità ridotta a impaccio, sembra tutto non semplicemente comprensibile, ma pure logico e inevitabile, persino eroico, persino giusto. Recchia, in servizio, per sventare i truffatori, li truffa a sua volta (le pittoresche operazioni della guardia di finanza sono una delle cose migliori del film, roba da videoclip dei Beastie Boys).

L’onestà è diventata onerosa e trasparente, burocratica, sconveniente. La disonestà, invece, ruba allo Stato per dare ai cittadini e non importa che sia un cul de sac, non c’è mai tempo per considerare le conseguenze delle cose a lungo termine: conta la soluzione momentanea, conta congelarla finché si può, dopotutto che male c’è, a chi fa male una nonna surgelata, una pensione in più e un privato in bancarotta in meno.

Tra tre giovani precarie e un’anziana morta bene e nel suo letto, dopo un po’ di mal di pancia e un presentimento, molti anni di ricca pensione maturata grazie a un lavoro semplice e sicuro, voi, chi scegliereste? A sostenere il lavoro di Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana, i due registi, c’è una doppia intuizione sul nostro Paese, non inedita, certo, ma di sicuro aggiornata a questo tempo: la truffa è un mezzo del bene e il bene coincide precisamente ed esclusivamente con il vantaggio personale.

A vederla così ben recitata e drammatizzata in commedia, questa intuizione sembra non solo l’unica verità possibile, ma pure l’unica regola possibile. C’erano tutti gli ingredienti per cento minuti di soffritta commedia tragica sulle conseguenze creative del precariato, sulla svalutazione dei giovani e della cultura, sull’inflazione della giustizia, e invece questa è una black comedy sul lavoro che si è trasformato in traguardo, fine che giustifica e sacrifica tutto; su come rinunciare alla complessità abbia reso arrendevole il nostro senso morale; sul perdono che si è trasformato in salvacondotto.

Te ne accorgi, però, a casa: al cinema, ti godi cento minuti di spasso, scrittura educata e intelligente, debiti con molto grande cinema e niente di scopiazzato, un cast che ti fa venire voglia di portartelo a casa e metterlo al posto della tv. «Abbiamo pensato al pubblico e fatto un film che divertisse e facesse innamorare», hanno detto i registi, trentadue anni Stasi e trentatré Fontana, coppia fissa da almeno un decennio, amici dal liceo, a Matera (a farli notare è stato, otto anni fa, il finto trailer di Inception Berlusconi), che da Youtube li ha portati in televisione e ora al cinema, da registi, a modo e completi, che degli youtubers hanno solo il passato e l’agilità.

Meritavano il cast che hanno avuto, la fiducia del produttore, la distribuzione in anteprima, uno sceneggiatore coi fiocchi. Fabio De Luigi sa fare tutto, a un certo punto sbuca dal retro di una camionetta con la divisa da blitz ed è perfino sexy. Lucia Ocone e Marina Rocco sono le amiche femmine come le abbiamo tutti: ingestibili, irresistibili, solidali se conviene, ammorbanti, esagerate, vengono prima di tutto e, se sono innamorate, esistono solo loro.

Su Twitter una ragazza ha scritto che le tre donne di questo film le hanno ricordato le tre ladre di Occhi di Gatto: un po’ è vero. Tanto queste quanto quelle sono le donne come le vorremmo vedere rappresentate sempre: più voluttuose e pratiche e divertenti che (noia) dolcemente complicate, emozionate, delicate. C’è un buco che ogni personaggio cerca di riempire ed è la solitudine: più della disoccupazione e della galera, in questo film, è dal rimanere soli che tutti scappano a gambe levate. Tra i vantaggi della disonestà, dopotutto, c’è che fa famiglia e gruppo speciale: entrambe le cose valgon bene una nonna in freezer. O no?