Dario Argento: “Io, che con la macchina da presa ci andavo pure a letto” | Rolling Stone Italia
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Dario Argento: “Io con la macchina da presa ci andavo pure a letto”

“Suspiria” compie quarant’anni e torna al cinema per tre giorni restaurato in 4K. Abbiamo incontrato il maestro dell’horror per parlare di tutto, da una certa critica retrograda fino alla droga e la depressione

Dario Argento: “Io con la macchina da presa ci andavo pure a letto”

Still da Suspiria 4K

Suspiria 4K. È una parola d’ordine, da settimane, per gli amanti dell’horror e del maestro Dario Argento. Dal 30 gennaio, per tre giorni, un pubblico fedele e innamorato riempirà le sale di tutta Italia per un capolavoro di 40 anni fa che sembra girato ieri. Restaurato e portato a nuova vita. Già, perché Suspiria era invecchiato solo nei suoi supporti, nelle pellicole, non certo nella sua forza espressiva e nelle sue creazioni geniali. E chissà quanti, che allora non erano neanche nati, lo scopriranno.

Ci sono i grandi registi. Ci sono i geni. Poi ci sono i maestri. Infine ci sono coloro che sono queste tre cose insieme e in più hanno rivoluzionato la loro arte. Dario Argento fa parte di quest’ultima categoria, quella dei Méliès per intenderci, è l’uomo che ha reso la macchina da prese un superpotere, la regia una forma di reinvenzione della realtà, del cinema, dell’immagine e dell’immaginario, che ha messo insieme Freud e Dreyer, Antonioni ed Escher. Noi lo abbiamo incontrato per un caffé. Per parlare di Suspiria. E non solo, ovviamente.

Suspiria compie 40 anni? Sembra incredibile.
Anche io fatico a credere che sia passato tanto tempo. Nel corso di questi anni Suspiria è tornato da me spesso, nei ricordi del pubblico e nelle celebrazioni del mio cinema ai festival. Non mi sono reso conto del fatto che sono passati quattro decenni, anche perché sembra un film fatto oggi, anzi domani. Non è superato, né è stato superato da altri, ha ancora uno spazio unico, non intaccato, nel cinema attuale.

Suspiria viene definito il suo capolavoro. L’impressione è che lei ne fosse consapevole già mentre lo stava girando.
Sapevo che mi sarei impegnato profondamente in quest’opera, che ci avrei messo tutto me stesso. Ci sono i miei pensieri, la mia concezione di cinema, è un manifesto del nuovo cinema horror come io lo concepisco. Non a caso è stato citato, non di rado copiato e spesso proprio saccheggiato. Non che mi dispiaccia, anche se in molti si sono appropriati di meriti non propri come Brian De Palma. Preferisco i Carpenter e i Tarantino che lo dicono ed è un onore per me che il loro talento si ispiri a me. Non è mai stato un film normale, fin dall’inizio, infatti tanti colleghi e amici nei vari continenti, dagli Stati Uniti all’Estremo Oriente, dove quest’opera ha avuto un successo incredibile, lo considerano un capolavoro assoluto.

Qual è il segreto di Suspiria e del cinema di Dario Argento?
Uno, molto semplice. Non mi confrontavo con il cinema di allora, ma con quello del passato in cui i registi si impegnavano fino alla morte per la propria arte. Il cinema di quel lungometraggio meraviglioso che è Leopard Man di Jacques Tourneur, tratto da un libro straordinario di Cornell Wollrich, il cinema di Carl Theodor Dreyer, dell’espressionismo tedesco, quando il cinema horror era più interessante, centrale, meno disprezzato. Ma tra le mie ispirazioni c’era altro, tanto altro: c’era anche Bergman. E poi c’era tanto di me stesso, del mio modo diverso dagli altri di guardare le cose, di intendere questo lavoro, di pensare e realizzare le immagini.

Oltre alla paura, il film coltiva una feroce inquietudine.
C’è molto Freud in questo film. D’altronde la psicanalisi ha cambiato il mondo: senza non puoi scrivere, dipingere, fare cinema. Ma c’è anche la storia dell’arte, ci sono tutte le mie ossessioni, le mie paure profonde, i miei sogni. Per questo sono felice che vi sia stato questo splendido restauro, ormai c’erano in giro solo pessime copie. Riscoprirlo così mi ha portato al 1976, al momento in cui l’ho fatto.

Qual è il suo rapporto con la musica? In Suspiria forse siamo in presenza del matrimonio più potente tra immagini in movimento e note.
È un rapporto molto profondo. I Goblin fecero qualcosa di unico, irripetibile, eccezionale, collaborammo molto per la colonna sonora. Sperimentammo con un modello di sintetizzatore avveniristico per i tempi, mischiandolo con suoni etnici come il bouzouki.

E dove scovò uno strumento del genere?
In una pausa di lavorazione scappai in Grecia, è un paese che amo per il suo essere culla dell’arte, della democrazia, della cultura, della filosofia. Ma curiosamente nei miei tanti viaggi in quella terra non ero mai andato ad ascoltare la musica tradizionale. Fortunatamente lo feci allora, appena lo sentii, suonato da una donna, capii che volevo quel suono così particolare nel mio film, qualcosa che evocasse anche la nazionalità di Helena Markos (la più anziana delle tre madri su cui si incentra la trilogia composta appunto da Suspira, Inferno e Le Tre Madri). C’è anche il sitar, perché l’arte è questo, raccontare tante cose insieme e fare in modo che trovino l’una con l’altra una loro omogeneità e purezza.

Dica la verità, per lei la musica è più importante degli attori?
Al di là del fatto che qui ci sono momenti musicali incredibili, no. Sono fondamentali entrambi, anche se la musica ti permette vette altissime. Gli attori però devono sempre rendersi conto di essere funzionali a un progetto. Poi, in quell’ambito, devono saper dare qualcosa di personale. Non li considero burattini come magari faceva il grande Fellini, ho sempre preteso che la sera, la notte, alla fine di una giornata sul set, si facessero venire delle idee da sottopormi l’indomani.

Perché non c’è (e mai c’è stato) un suo erede?
Forse perché manca l’ambizione sfrenata necessaria a un artista per potersi confrontare con i grandi maestri: penso a Wes Anderson, ma anche a loro modo a Sorrentino e Garrone e ad alcuni bravissimi registi dell’Estremo Oriente, dove a mio parere si fa il cinema migliore. Ci sono ancora registi bravi, sono pochi ma ci sono. Il problema è che il cinema non ha più la qualità d’un tempo, si è imbastardito, è in mano a direttori marketing e a produttori interessati solo al denaro, all’aspetto industriale.
Oggi il cinema non ha anima, psicologia, fantasia, spirito. I personaggi sono vuoti e il mezzo, la macchina da presa, ha perso la sua centralità. L’obiettivo deve danzare, muoversi sul set, catturare lo spirito del racconto. Io, durante la lavorazione di Suspiria, la portavo nella mia camera, la tenevo vicino al letto, la coccolavo come se fosse un essere vivente, una donna. Era questo che mi suggeriva movimenti imprevedibili e nuovi: Sergio Leone me l’ha sempre detto “bisogna darle un’anima, altrimenti fai solo una serie di fotografie”. Pensa a quando mi muovo nei corridoi in Suspiria: ogni movimento dà un’emozione, una vertigine, un’ansia diverse. E non succede nulla, ma basta guardare le pareti e le porte in modo diverso e cambia tutto. Come uno scrittore ama la penna e la pagina, io amo la macchina da presa. È una relazione sentimentale, forse la più importante: ecco perché lo stile per me è fondamentale.

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1300 inquadrature diverse. L’unicità e il cambiamento fanno parte del suo cinema?
Sì, in ogni scena che ho girato c’è un dispendio emotivo e creativo unico e irripetibile. Mi è necessario, per non perdere gli stimoli. E non vale solo per Suspiria ma per tutta la mia cinematografia. Pensa a Tenebre: girato sempre di notte, sembra giorno. È a colori, ma sembra in bianco e nero. Anche nel pensarlo un film così diverso dagli altri che ho fatto, lo immaginavo in un futuro lontano, devastato dalla bomba atomica, in una Roma deserta ispirata a L’eclisse di Antonioni, quasi metafisica: non a caso scelsi come location l’Eur, il quartiere più metafisico che abbia mai visto.

Nella sua autobiografia Paura, edita da Einaudi, raccontò delle pulsioni suicide durante la lavorazione di Suspiria. L’ha salvata il cinema?
No, io non metabolizzo, racconto. Suspiria non era uno sfogo, al massimo uno specchio. A dirla tutta, non c’era corrispondenza tra quei momenti drammatici e il film. Anzi, ero felice in quel periodo: andavo spesso a ballare, avevo due fidanzate, spesso facevo salire nella mia suite in un hotel di Via Veneto amici e collaboratori per festeggiare, altre volte per guardare dei film, una specie di cineforum improvvisato con una predilezione per le opere di Fellini. Avevo tanti amori, mi sono divertito molto, ma dentro di me c’era un tarlo che mi rodeva, un desiderio inspiegabile di togliermi la vita. Non me lo sono mai spiegato: ero al massimo anche nel lavoro e mentre guardavo le scene dei giornalieri ero entusiasta, contento di me. Fortunatamente è passata da sola, questa voglia: ha aiutato anche aver messo dei mobili davanti alla finestra, in quei giorni.

Ci sono stati molti momenti difficili nella sua vita e nella sua carriera?
Sì, ma fortunatamente sono passati in fretta. Sempre. È successo anche con la droga, due volte. Non mi sono mai permesso di cadere nella follia. Non c’è nostalgia, ora, di questi periodi, come capita ad altri. Io sono come il mio cinema, mutevole, incline al cambiamento. Ad esempio adoro cambiare casa, viaggiare da solo. È meraviglioso girare il mondo senza compagni di viaggio: non devi verbalizzare quello che vedi e allora tutto ciò che osservi, senti, vivi ti entra dentro l’anima. Dipenderà dal mio essere straniero: mia mamma è brasiliana e non mi sento brasiliano lì né italiano qui. Forse viaggio tanto perché cerco il posto da cui traggo origine. Non l’ho mai trovato. Forse è proprio il cinema. O almeno è il conforto a questo mio errare senza sosta. Fisicamente, mentalmente e anche emotivamente: prima del mio ingresso in questo mondo, non ero molto legato a mio padre. Poi lavorando insieme è diventato il mio migliore amico: andavamo al cinema, al ristorante insieme. Abbiamo viaggiato molto, ci confrontavamo. Sento moltissimo la sua mancanza tuttora, è stata una perdita terribile.

Lei era un lupetto. Io, le confesso, ho sempre avuto paura dei boy scout, delle loro gite, del modo in cui si vestono. Nasce lì Dario Argento? Attorno al fuoco?
No. Dario Argento nasce quando vede in un vecchio cinema sulle Dolomiti, in cui andava sempre, Il Fantasma dell’Opera. Mi aprì un mondo di sconvolgimenti e pazzia, di sentieri della mente imprevedibili. Poi arrivarono le letture, Edgar Allan Poe su tutti. Infine devo ringraziare la tessera del Metropolitan e una rassegna estiva di vecchi film dell’orrore: mio padre lavorava e non li amava molto, così la presi io. Ci andai tutti i pomeriggi, ero piccolo e scoprii L’uomo lupo, Frankenstein e tanti altri che mi portarono nel loro mondo di follia ed emozioni. Ma non avevo paura, mi coinvolgevano i loro dolori e le loro avventure. In ogni caso non pensavo mica di fare il cinema, né allora né dopo. Credevo che il mio destino fosse scrivere: prima come giornalista e critico, poi come sceneggiatore. Non sopportavo il caos costante sui set, le maestranze che parlavano di calcio durante una scena cruciale, gli attori che urlavano e si lamentavano, il regista che comandava strillando di più. Io pensavo si dovesse stare zitti, come in Chiesa, per pensare e inventare. Ma quando scrissi L’uccello dalle piume di cristallo, dopo un po’ di rifiuti da varie produzioni, decisi di farmelo da solo. Ci mettemmo io e mio padre, ma i soldi non bastavano e chiedemmo aiuto a Goffredo Lombardo che credette nel progetto. Purtroppo, produttori così – competenti di cinema e capaci di una dialettica – anche dura, con gli autori non ci sono più. Però sui miei set, ci tengo a dirlo, non vola una mosca. Quelli che parlano sui miei set mi vedono piombare alle loro spalle e si prendono certe ramanzine che neanche immagini.

Lei sa che se Dario Argento fosse nato 40 anni dopo, ora la sua bacheca sarebbe piena di premi, Oscar in testa?
Sì, certo, per fortuna è cambiato tutto. Prima mi stroncavano, non capivano ciò che facevo, ora mi chiamano maestro. Allora amavano Visconti, Fellini, Maselli. Il mio era, per loro, solo cinema commerciale. Era tutt’altro, non capivano nulla, ma il problema della critica è spesso di essere troppo “vecchia” e poco incline all’innovazione. Ma il pubblico ha sempre saputo chi fossi, cos’è il mio cinema. Conta quello, cambia solo che avrei un Leone d’Oro o una Palma d’Oro in salotto ora. Forse un tempo mi ha dato fastidio, ora sono sereno.

Il remake di Guadagnino la fa ancora arrabbiare?
Non mi ha mai fatto arrabbiare. Luca lo conosco da quando mi intervistò per Vanity Fair, mi colpì per la sua intelligenza. Ama Suspiria, so che lo rispetterà. Non sono geloso, hanno preso solo la storia e, anzi, pare abbiano pure tolto le streghe. Non hanno preso me: l’unico motivo per cui non sono andato sul set è stato per evitare imbarazzi e confronti al regista e agli attori.

Suspiria De Profundis, la serie tv che farà, dimostra che i maestri ora si rivolgono al piccolo schermo?
Sì, la televisione in questo momento storico è più libera negli stili e nelle tematiche. In Masters of Horror, altro prodotto televisivo, feci i due episodi più visti. Mai avuto pregiudizi, io, cinema e tv sono lo stesso campo, conta come li fai, non dove finisce la tua opera. Mi sta piacendo molto questo lavoro con Cattleya, credo verrà qualcosa di molto bello. E’ una nuova sfida.

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