Ben Affleck e J.K. Simmons ci raccontano “The Accountant” | Rolling Stone Italia
Interviste

Ben Affleck e J.K. Simmons ci raccontano “The Accountant”

Abbiamo incontrato i protagonisti del film su un contabile di organizzazioni criminali affetto da sindrome di Asperger. «Un omaggio a tutte le persone affette da autismo», racconta Affleck. Dal 27 ottobre al cinema

Ben Affleck e J.K. Simmons ci raccontano “The Accountant”

Four Season BallRoom, hotel in quel di Beverly Hills, con tanto di cielo azzurro e boulevard allineati da palme infinite (sì, proprio come nei film): questo è il luogo abituale dove noi giornalisti andiamo per gli incontri stampa, tante volte rituali dovuti, altre volte sorprese inaspettate come questa volta, accorsi in pochi “gatti” per il thriller-action movie The Accountant, diretto da Gavin O’Connor, regista di Pride and Glory – Il prezzo dell’onore e Warrior – che ha tra i protagonisti Ben Affleck (oscar per la sceneggiatura per Genio Ribelle, Batman e oscar miglior film Argo) Anna Kendrick (Tra le Nuvole e la Twilight saga), J.K. Simmons (Juno e Whiplash), John Lithgow (Il Mondo secondo Garp, The Day After, Backaroo Banzai, il recente Dexter, Interstellar…), Jeffrey Tambor (Transparent) e Jon Bernthal (Daredevil e il prossimo Punisher). Affleck è Christian Wolff, un matematico autistico che lavora come genio contabile per alcune pericolose organizzazioni criminali. J.K. Simmons è Ray King, capo della divisione anticrimine del Dipartimento del Tesoro, che non lo perde d’occhio. Presentato in questi giorni anche alla Festa del Cinema di Roma, uscirà nelle nostre sale il 27 ottobre. Ne abbiamo parlato con i due protagonisti.

Perché hai scelto di interpretare questo ruolo?
Ben Affleck: È una storia che tratta la dualità interiore che esiste in tutti noi. Nella nostra società molta gente sottovaluterebbe uno come Chris, anche se in realtà è più efficiente e capace di molta gente che conosco. Da un lato è un genio savant della matematica, dall’altra un atleta combattente super qualificato. Non ho mai interpretato una persona così eccitante e stimolante, anche se molto impegnativa.

Come ti sei preparato a interpretare Christian Wolff?
BA: Sapevo benissimo che avrei dovuto fare molta ricerca, leggere tutto quello che potevo e guardare tutti i video possibili su YouTube. Ho incontrato vari specialisti, ma soprattutto persone con sindrome di Asperger, una forma di autismo ad alto funzionamento. Sono stato a scuola con loro e mi sono fatto raccontare le loro esperienze. Ho imparato che le persone con Asperger sono molto diverse l’una dall’altra. Chris è un’insieme di tutte le persone con cui ho interagito, per me era importante interpretare in modo reale e corretto una persona come lui, anche perché ogni volta che si trattano dei soggetti che toccano la vita di gente vera, è fondamentale rispettare il loro mondo, l’impatto sulle loro comunità. Era un modo per omaggiare chiunque sia affetto da autismo, per me Chris è un vero supereroe.
J.K. Simmons: Chris sa benissimo cosa significa essere diverso, sa di non essere considerato ‘normale’, ma alla fine è proprio come tutti noi, vuole essere felice, avere contatto con altri esseri umani, vuole innamorarsi, avere amici, ha dei sogni che vuole realizzare, vuole avere successo nel lavoro e nella vita, anche se il suo approccio nei confronti di queste cose è peculiare, diverso da quello della maggior parte della gente.

Questa diversità porta suo padre a trattarlo duramente…

BA: Quando Christian viene diagnosticata la sindrome di Asperger, il neurologo spiega ai genitori che l’handicap di loro figlio in realtà è un talento, non uno svantaggio, anche se il padre di Chris ha le sue idee su come preparare il figlio a questa diversità. Suo padre sa che il mondo sarà crudele nei confronti di Chris, quindi decide di crescerlo con tutti i mezzi a sua disposizione, soprattutto con quelli che ha imparato da militare. Non posso giudicare se ha fatto una scelta giusta o sbagliata, so solo che ama suo figlio ma non ha la conoscenza necessaria per capire che in realtà gli sta facendo del male.
JKS: I figli ti cambiano la vita, sei molto più vulnerabile, hai sempre paura di sbagliare. Suo padre, per paura e per amore, finisce per abusarne e trattarlo in modo violento. Come genitore non mi sento di giudicarlo, non è facile, so le emozioni intense che si provano nei confronti dei propri figli. Tra poco i miei figli andranno all’università e io e mia moglie resteremo soli. Le paure sono sempre presenti, non si smette mai di essere mamma o papà.

In uno dei flashback scopriamo che Chris è stato allenato a uno specifico stile di combattimento. Qual è?
BA:
Si chiama Pencak Silat, è una forma di arte marziale indonesiana. Gavin l’ha scelta perché è molto cinematica ma anche incredibilmente efficiente. Non l’avevo vista in altre produzioni, ha dato uno stile nuovo e particolare a tutto il film. Ho passato mesi ad allenarmi, volevo davvero che Chris avesse un manierismo tipico della sua personalità, ho lavorato molto anche con i coreografi, perché volevo non solo essere letale e potente, ma anche elegante. È stato molto intenso perché faccio la maggior parte dei miei stunt, ma quando finalmente sono riuscito a muovermi come volevo, è stata una bella soddisfazione”.

Come hai ottenuto il ruolo?
JKS:
Gavin (il regista) mi ha detto che ha pensato a me subito dopo avermi visto in Whiplash. Due giorni dopo ci siamo incontrati e mi ha offerto la parte. Di lui mi è piaciuta subito la passione che ha per il suo lavoro, è una persona che ha il giusto equilibrio tra cuore e cervello. È anche molto esperto e preparato, conosce bene il suo lavoro. È sempre bello lavorare con un regista che sa quello che vuole, ma che è anche aperto ad ascoltare quello che hanno da dare gli attori. Non succede spesso.

Cos’hai imparato dalla tua carriera da regista?
BA:
Ho imparato che per fare un bel film ci vuole un bravo regista. Quando sei attore la barca non è tua, devi seguire le direzioni del capitano, il tuo lavoro di attore e’ di essere preparato, creativo e contribuire con idee tue, anche se alla fine della giornata devi cercare di soddisfare la visione del regista, senza interferire troppo, o allontanarti dalla sceneggiatura. Io, sin dal primo giorno sul set, voglio creare una connessione speciale con il mio regista, voglio fargli capire che sono a sua completa disposizione, sono li solo ed esclusivamente per fare il suo film, per arrivare alla sua visione. Sono molto rispettoso, anche perché se qualcosa non funziona sul set, posso tranquillamente andare nel mio camerino e aspettare che risolvano il problema. Dirigere e’ un’esperienza bellissima, molto intensa, non e’ per tutti, c’e’ molta pressione ed e’ stressante. È facilissimo sbagliare, ti puoi giocare la carriera, conosco gente che non si è mai più ripresa.

Insieme, lavorerete ancora a Justice League (in Italia a fine 2017).
JKS: Lavorare con Ben è una delle esperienze più interessanti che abbia mai avuto sul set. È un ibrido strano, bravo attore ma anche regista, scrittore e produttore. Non so come faccia, io rispetto a lui sono super pigro, aspetto che mi chiamino per andare a lavorare. Lui appena ha una pausa si butta subito sul prossimo progetto. Incredibile.
BA: Che Batman sarebbe, senza il commissario Gordon? In questo film sono anche uno dei produttori esecutivi, e siccome dirigerò The Batman, ci sarà una sorta di contaminazione di questa storia e con questi personaggi, anche nella mia versione di Batman. Posso solo dire che sarà un film d’azione, ma anche molto divertente.

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