I diabolici enigmi di The Witness | Rolling Stone Italia
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I diabolici enigmi di The Witness

Il nuovo videogame di Jonathan Blow, il re degli sviluppatori indie, è un'avventura-puzzle in prima persona ambientata un'isola misteriosa e bellissima

https://youtu.be/SPMMKFX78x0Tutti i videogame richiedono tempo, e impegno. Infatti, la principale obiezione di chi non li frequenta è “non gioco, perché voglio continuare a vivere”, o una declinazione di questo concetto. Se poi si debba considerare “vivere” o meno anche il binge watching di un’intera serie tv durante un weekend – che a ben vedere è un’esperienza ancora più passiva del tenere un controller in mano – è un’altra questione.Non è soltanto una questione di miopia, o di pregiudizio del pubblico generalista. Sono gli stessi sviluppatori di videogames (e le grandi software house che li finanziano) a non avere fino a oggi ancora saputo, o voluto, farsi considerare arte; o, quantomeno, intrattenimento “alto”, meritevole del nostro tempo in erosione costante.Basta un’occhiata ai titoli più venduti – e più apprezzati dalla critica – degli ultimi anni, per capire che l’originalità e la voglia di sperimentare non sono la principale preoccupazione dell’industria dei videogame. Titoli come GTA V, Bloodborne, Assassin’s Creed Syndicate, Fallout 4, Far Cry Primal, ma anche i venturi Hitman e Uncharted 4, solo per citarne alcuni, non sono che variazioni sempre più perfezionate e potenti (e senz’altro divertenti) delle stesse idee di partenza. Sono l’equivalente dei blockbuster Marvel cinematografici: hanno saputo creare un gusto per il pubblico, e sono costrette a nutrire periodicamente quel gusto, da cui dipende la loro stessa esistenza commerciale.Ma tutti sono d’accordo nel dire che i videogame potrebbero essere anche molto altro. In pochissimi, però, sembrano avere le idee chiare su che cosa sia, questo altro.[caption id="attachment_302089" align="alignnone" width="640"]shot_2013.10.14__time_11_05_n01 Tutte le immagini courtesy Thekla, Inc.[/caption]Uno di questi pochissimi è Jonathan Blow. Americano, nato nel 1971, è probabilmente il game designer indipendente più famoso del mondo. La sua opera precedente, Braid (2009) – un platform rompicapo in 2D il cui gameplay ruota intorno alla possibilità di avvolgere indietro il tempo, per correggere i propri errori – ha in pratica dato il via a un movimento dal basso di videogame “artistici” (ovvero: raffinati, poetici, ecc.) che ha portato nel corso degli ultimi anni a piccoli capolavori come Limbo (2010), The Stanley Parable (2013), Kentucky Route Zero (2013), Lumino City (2014) e Undertale (2015). Il successo di Braid ha fruttato a Blow una discreta fortuna, per i parametri di uno sviluppatore indipendente. Contrariamente a quanto il buon senso e l’economia domestica consiglierebbero, l’autore ha subito deciso di reinvestire i suoi guadagni nel progetto successivo.Così, il 26 gennaio 2016, dopo 7 anni di lavoro, è andato online The Witness. Il suo budget, inizialmente previsto per 800mila dollari, è lievitato fino alla cifra di 6 milioni. Per arrivare in fondo alla sua impresa, e soprattutto mantenere il gioco libero da ogni compromesso creativo, Blow si è dovuto letteralmente indebitare. Ma nella prima settimana di vendite, The Witness (il prezzo al pubblico scelto è €36,99: apparentemente alto per un titolo indie, ma corretto in rapporto a quantità e qualità) ha incassato circa cinque milioni di dollari: un’ottima partenza, che molto probabilmente riuscirà a recuperare le spese di sviluppo e a dare a Blow la possibilità di concentrarsi al prossimo progetto con tranquillità.screenshot08La definizione di The Witness è: un rompicapo 3D open world in prima persona. Ma è più interessante descriverlo in quanto prodotto culturale: è un’avventura metafisica dentro un luogo vivente, come il romanzo L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, che Borges definì “perfetto” (1940), e la trilogia dell’Area X (Annientamento, Autorità, Accettazione) raccontata da Jeff Vandermeer (2014). O ancora, come il film Solaris, del regista russo Andrej Tarkovskij (1972), con le sue inquietanti manifestazioni prodotte da un oceano senziente. Il luogo protagonista di The Witness è un’isola disabitata: uno spazio concettuale astratto progettato nel minimo dettaglio, in cui natura e architettura si fondono, non senza un certo fascino. In un’intervista al Guardian, Jonathan Blow ha definito The Witness “un videogame per chi ha letto Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon”.Cosa bisogna fare in The Witness? Il giocatore si risveglia dentro un tunnel, senza alcuna intro o tutorial. In fondo al tunnel c’è una porta: il meccanismo di apertura sarà il primo, elementare rompicapo da risolvere, da cui deriveranno tutti quelli successivi. Il giocatore quindi si ritrova immerso dentro una natura idilliaca, poco realistica e molto varia – si passa rapidamente da ambienti come una foresta autunnale, una spiaggia assolata con palme, una cava di roccia, un bosco di ciliegi, e attraverso strutture di orgine umana come relitti di navi, castelli, bungalow, ecc – da cui ogni spuntano qua e là sequenze di pannelli verticali. Tracciando delle linee dentro questi pannelli, se ne attivano altri di difficoltà sempre crescente. Una volta risolti tutti i pannelli di un’area, si aziona un meccanismo che spedisce un raggio luminoso verso la sommità di una montagna. Lo scopo “ufficiale” di The Witness è riuscire a entrare dentro questa montagna, e risolvere gli enigmi al suo interno.screenshot06Ma chi dovesse cercare significati profondi dietro questi puzzle rimarrà deluso, forse. Intanto, perché questi puzzle sono il gioco: per chi scrive il finale si è sbloccato dopo averne risolti 365, su un totale di più di 600. La vera impresa compiuta da Blow è quella di essere riuscito a mantenere The Witness un gioco divertente ed enormemente appagante (e anche frustrante, ma mai ingiusto) attraverso una dinamica apparentemente noiosa. La varietà e la complessità degli enigmi di The Witness è data soprattutto dall’abilità con cui Blow ha integrato le dinamiche in 2D di questi rompicapo dentro l’ambiente 3D del gioco, che deve essere costantemente tenuto in considerazione per arrivare al senso degli enigmi più complessi. È il sogno di ogni ammiratore della Settimana Enigmistica: i quesiti vanno dal difficilotto al veramente diabolico, e la soluzione di alcuni è riservata, secondo i piani di Blow, soltanto all’1% dei giocatori. The Witness è un gioco che ti fa sentire intelligente, e in grado di usare zone del cervello che, forse, per il resto delle tue giornate resterebbero disabitate.In un momento in cui aziende come Google e Facebook stanno investendo centinaia di milioni di dollari per comprendere che cosa renda la mente umana tanto speciale, con lo scopo di realizzare un’intelligenza artificiale generale che sia finalmente in grado di imparare dai propri errori e adoperare il buon senso, un videogame come questo è una celebrazione di tutto ciò che rende l’uomo capace delle imprese più grandi. The Witness, pur nel suo essere così difficile e cerebrale, potrebbe diventare il primo, autentico videogame per tutti: il Santo Graal di chi pensa che questa forma espressiva sia ormai la più importante della nostra epoca. E non vede l’ora che lo pensino anche gli altri.

Il nuovo videogame di Jonathan Blow, il re degli sviluppatori indie, è un'avventura-puzzle in prima persona ambientata un'isola misteriosa e bellissima

The Witness release date trailer

Tutti i videogame richiedono tempo, e impegno. Infatti, la principale obiezione di chi non li frequenta è “non gioco, perché voglio continuare a vivere”, o una declinazione di questo concetto. Se poi si debba considerare “vivere” o meno anche il binge watching di un’intera serie tv durante un weekend – che a ben vedere è un’esperienza ancora più passiva del tenere un controller in mano – è un’altra questione.

Non è soltanto una questione di miopia, o di pregiudizio del pubblico generalista. Sono gli stessi sviluppatori di videogames (e le grandi software house che li finanziano) a non avere fino a oggi ancora saputo, o voluto, farsi considerare arte; o, quantomeno, intrattenimento “alto”, meritevole del nostro tempo in erosione costante.

Basta un’occhiata ai titoli più venduti – e più apprezzati dalla critica – degli ultimi anni, per capire che l’originalità e la voglia di sperimentare non sono la principale preoccupazione dell’industria dei videogame. Titoli come GTA V, Bloodborne, Assassin’s Creed Syndicate, Fallout 4, Far Cry Primal, ma anche i venturi Hitman e Uncharted 4, solo per citarne alcuni, non sono che variazioni sempre più perfezionate e potenti (e senz’altro divertenti) delle stesse idee di partenza. Sono l’equivalente dei blockbuster Marvel cinematografici: hanno saputo creare un gusto per il pubblico, e sono costrette a nutrire periodicamente quel gusto, da cui dipende la loro stessa esistenza commerciale.

Ma tutti sono d’accordo nel dire che i videogame potrebbero essere anche molto altro. In pochissimi, però, sembrano avere le idee chiare su che cosa sia, questo altro.

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Tutte le immagini courtesy Thekla, Inc.

Uno di questi pochissimi è Jonathan Blow. Americano, nato nel 1971, è probabilmente il game designer indipendente più famoso del mondo. La sua opera precedente, Braid (2009) – un platform rompicapo in 2D il cui gameplay ruota intorno alla possibilità di avvolgere indietro il tempo, per correggere i propri errori – ha in pratica dato il via a un movimento dal basso di videogame “artistici” (ovvero: raffinati, poetici, ecc.) che ha portato nel corso degli ultimi anni a piccoli capolavori come Limbo (2010), The Stanley Parable (2013), Kentucky Route Zero (2013), Lumino City (2014) e Undertale (2015). Il successo di Braid ha fruttato a Blow una discreta fortuna, per i parametri di uno sviluppatore indipendente. Contrariamente a quanto il buon senso e l’economia domestica consiglierebbero, l’autore ha subito deciso di reinvestire i suoi guadagni nel progetto successivo.

Così, il 26 gennaio 2016, dopo 7 anni di lavoro, è andato online The Witness. Il suo budget, inizialmente previsto per 800mila dollari, è lievitato fino alla cifra di 6 milioni. Per arrivare in fondo alla sua impresa, e soprattutto mantenere il gioco libero da ogni compromesso creativo, Blow si è dovuto letteralmente indebitare. Ma nella prima settimana di vendite, The Witness (il prezzo al pubblico scelto è €36,99: apparentemente alto per un titolo indie, ma corretto in rapporto a quantità e qualità) ha incassato circa cinque milioni di dollari: un’ottima partenza, che molto probabilmente riuscirà a recuperare le spese di sviluppo e a dare a Blow la possibilità di concentrarsi al prossimo progetto con tranquillità.

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La definizione di The Witness è: un rompicapo 3D open world in prima persona. Ma è più interessante descriverlo in quanto prodotto culturale: è un’avventura metafisica dentro un luogo vivente, come il romanzo L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, che Borges definì “perfetto” (1940), e la trilogia dell’Area X (Annientamento, Autorità, Accettazione) raccontata da Jeff Vandermeer (2014). O ancora, come il film Solaris, del regista russo Andrej Tarkovskij (1972), con le sue inquietanti manifestazioni prodotte da un oceano senziente. Il luogo protagonista di The Witness è un’isola disabitata: uno spazio concettuale astratto progettato nel minimo dettaglio, in cui natura e architettura si fondono, non senza un certo fascino. In un’intervista al Guardian, Jonathan Blow ha definito The Witness “un videogame per chi ha letto Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon”.

Cosa bisogna fare in The Witness? Il giocatore si risveglia dentro un tunnel, senza alcuna intro o tutorial. In fondo al tunnel c’è una porta: il meccanismo di apertura sarà il primo, elementare rompicapo da risolvere, da cui deriveranno tutti quelli successivi. Il giocatore quindi si ritrova immerso dentro una natura idilliaca, poco realistica e molto varia – si passa rapidamente da ambienti come una foresta autunnale, una spiaggia assolata con palme, una cava di roccia, un bosco di ciliegi, e attraverso strutture di orgine umana come relitti di navi, castelli, bungalow, ecc – da cui ogni spuntano qua e là sequenze di pannelli verticali. Tracciando delle linee dentro questi pannelli, se ne attivano altri di difficoltà sempre crescente. Una volta risolti tutti i pannelli di un’area, si aziona un meccanismo che spedisce un raggio luminoso verso la sommità di una montagna. Lo scopo “ufficiale” di The Witness è riuscire a entrare dentro questa montagna, e risolvere gli enigmi al suo interno.

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Ma chi dovesse cercare significati profondi dietro questi puzzle rimarrà deluso, forse. Intanto, perché questi puzzle sono il gioco: per chi scrive il finale si è sbloccato dopo averne risolti 365, su un totale di più di 600. La vera impresa compiuta da Blow è quella di essere riuscito a mantenere The Witness un gioco divertente ed enormemente appagante (e anche frustrante, ma mai ingiusto) attraverso una dinamica apparentemente noiosa. La varietà e la complessità degli enigmi di The Witness è data soprattutto dall’abilità con cui Blow ha integrato le dinamiche in 2D di questi rompicapo dentro l’ambiente 3D del gioco, che deve essere costantemente tenuto in considerazione per arrivare al senso degli enigmi più complessi. È il sogno di ogni ammiratore della Settimana Enigmistica: i quesiti vanno dal difficilotto al veramente diabolico, e la soluzione di alcuni è riservata, secondo i piani di Blow, soltanto all’1% dei giocatori. The Witness è un gioco che ti fa sentire intelligente, e in grado di usare zone del cervello che, forse, per il resto delle tue giornate resterebbero disabitate.

In un momento in cui aziende come Google e Facebook stanno investendo centinaia di milioni di dollari per comprendere che cosa renda la mente umana tanto speciale, con lo scopo di realizzare un’intelligenza artificiale generale che sia finalmente in grado di imparare dai propri errori e adoperare il buon senso, un videogame come questo è una celebrazione di tutto ciò che rende l’uomo capace delle imprese più grandi. The Witness, pur nel suo essere così difficile e cerebrale, potrebbe diventare il primo, autentico videogame per tutti: il Santo Graal di chi pensa che questa forma espressiva sia ormai la più importante della nostra epoca. E non vede l’ora che lo pensino anche gli altri.

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